Il reato di diffamazione si configura anche in caso di colloquio con persone tenute alla riservatezza

Il reato di diffamazione si configura anche in caso di colloquio con persone tenute alla riservatezza
24 Dicembre 2018: Il reato di diffamazione si configura anche in caso di colloquio con persone tenute alla riservatezza 24 Dicembre 2018

Con la sentenza n. 50423/2018, la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul reato di diffamazione e sui requisiti necessari ai fini della sua configurabilità.

Nel caso di specie l’imputato era accusato di aver utilizzato espressioni di segno negativo in merito alla correttezza commerciale dell’agire di una società veneta.

In particolare, tali espressioni erano state utilizzate nel corso di due colloqui con due dipendenti di un’agenzia di investigazione privata, cui la società si era rivolta per verificare se l’imputato, che svolgeva attività commerciale concorrente con quella della parte offesa, denigrasse effettivamente quest’ultima.

L’imputato veniva assolto in primo grado.

A seguito del ricorso ai sensi dell’art. 38 d.lgs. n. 274/2000 presentato dalla parte civile, la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza assolutoria, con rinvio per un nuovo giudizio.

A definizione del giudizio di rinvio, il Giudice di Pace disponeva nuovamente l’assoluzione dell’imputato, perché il fatto non costituisce reato.

Il giudice di prime cure, infatti, dopo aver premesso che l’offesa all’altrui reputazione sussiste solamente ove “la comunicazione si attui nell’ambito di un determinato contesto sociale, cioè di un gruppo di persone in qualche modo sussumibili sotto la stessa categoria in forza di una correlazione che intercorre fra loro (nazionalità, cittadinanza, parrocchia, partito politico, centro sportivo, luogo di lavoro, vicinato e vuoi anche clientela di un esercizio commerciale”, aveva ritenuto che nel caso di specie non sussistesse l’elemento oggettivo del reato.

In particolare, le dichiarazioni offensive erano state ricevute da due incaricati di un’agenzia di investigazione privata, per ciò tali vincolati all’obbligo di riservatezza e, per giunta, contattati “appositamente per indur[re l’imputato] ad esprimere il suo odio verso la parte offesa”.

Pertanto, nessuna offesa alla reputazione commerciale della società era derivata dalle espressioni denigratorie pronunciate nel corso dei predetti colloqui, “dal momento che le stesse non vennero percepite da alcuna comunità di persone”.

La parte civile impugnava nuovamente la decisione mediante ricorso ex art. 38 d.lgs. 274/2000.

La Corte di Cassazione ha accolto anche in questo caso l’impugnazione della società, premettendo anzitutto che tutte le considerazioni svolte dal giudice del rinvio gli erano inibite dalla regola di cui all’art. 627 c.p.p., avendo la precedente sentenza di annullamento espressamente specificato che le dichiarazioni rese dall’imputato agli investigatori integravano atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 c.c., perché non costituenti esercizio del diritto di critica commerciale.

Ciò posto, i Giudici di Piazza Cavour hanno sottolineato come, per consolidata giurisprudenza di legittimità, “ai fini della configurabilità del reato di diffamazione è necessario che l’autore delle espressioni lesive dell’altrui reputazione comunichi, anche in tempi diversi (come del resto affermato nella sentenza di annullamento), con almeno due persone ovvero con una sola persona ma con modalità tali che detta notizia venga sicuramente a conoscenza di altri”.

Inoltre, “l’offesa alla reputazione commerciale di imprenditore, costituente atto di concorrenza sleale, si ha anche quando le espressioni verbali di discredito dell’attività da questi svolta sono pronunciate nel corso di colloqui con due persone che sono tenute, per ragioni di riservatezza derivante dalla loro professione, a non divulgarne il contenuto a persone diverse dal committente l’attività da loro svolta; essendo solo necessario, ai fini della configurabilità del reato di diffamazione, che le espressioni in discorso vengano percepite da coloro cui esse sono rivolte”.

Pertanto, anche nel caso di soggetti tenuti alla riservatezza, financo di c.d. “agenti provocatori”, si configura il reato previsto dall’art. 595 c.p. qualora la dichiarazione denigratoria venga comunicata al soggetto nei cui confronti è stata espressa.

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha nuovamente annullato la decisione impugnata e rinviato al Giudice di Pace per un nuovo giudizio.

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